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Non esiste nulla che si possa davvero chiamare un lieto fine. Non c’è cultura che non abbia una massima per esprimere questo concetto, come non esiste luogo nell’universo dove ci sia una pietra tombale che dica “Amò ogni singola cosa nella sua vita, ma gradì particolarmente il pezzetto finale in cui morì”. Come racconta il regista indipendente e chef dentrassi Desse Dessèr nel suo libro di memorie Frittata ofilm, lasciate girare a me!: “Quello che vi sembra il lieto fine non è che il fugace attimo di sollievo prima che il serial killer che credevi morto si rialzi per massacrare tutti tranne la ragazza dalle tette più grosse, che sarà la prima a morire nel sequel dell’anno dopo”. O, per dirla alla maniera sintetica di Zem di Sconchiglioso Zeta: “Il materasso non può restare asciutto per sempre”. La citazione più abusata sull’argomento dei finali, lieti o meno, è quella lasciataci da un uomo che visse su uno dei poli di Hawalius, che si limitò semplicemente a sentenziare: “Non esiste un finale, né se è per questo un inizio, è tutto un centro”. La frase prosegue su toni un po’ più sconnessi: “I centri sono una cacata. Io odio i centri. I centri sono tutto un rimpianto del passato in attesa che accada qualcosa di interessante. I centri possono andare a farsi zarkare, per quel che mi riguarda”. In genere gli autori di opuscoli tendono a riprodurre soltanto il primo pezzetto, accompagnandolo magari con l’immagine di un grazioso cucciolo di balena o del tramonto di due soli gemelli sullo sfondo.

Non era passata che una settimana dall’abortito attacco vogon e già la gente s’era dimenticata di quanto fosse fortunata a essere sopravvissuta, già ricominciavano tutti a lamentarsi dei grossi problemi quotidiani, del tipo che non c’era nulla che si potesse fare per la nebbiolina che nel tardo pomeriggio si levava dall’oceano e perché nessuno avesse mai pensato a portare un po’ più di burro di arachidi dalla Terra e cosa fosse mai quell’odore penetrante intorno all’asilo nido e se non sarebbe stato meglio avere un planetoide un po’ più spazioso, dal momento che quella gravità artificiale stava mandando fuori di testa alcuni dei più anziani.

Hillman Hunter era seduto alla scrivania a scorrere i reclami del giorno, domandandosi perché mai si fosse preso il disturbo di andare a cercarsi un dio. La gran parte di quelle scartoffie da riciclo si sarebbe potuta tranquillamente sistemare con ferro e fuoco o un maglio, a seconda del caso. Hillman sapeva cogliere i benefici quantomai concreti dell’avere un dio assenteista che comunicava solo tramite il proprio rappresentante, ma quel martirio così repentino da parte di Thor era stato proprio necessario? Non avrebbe potuto passare qualche settimana da impiegato statale prima di darsi al sacrificio finale?

Non che il martirio non avesse prodotto i suoi vantaggi. Da quando Hillman era stato riportato indietro dal regno dei morti nel padiglione medico della Cuore d’Oro, erano stati tutti molto più bendisposti ad accettarlo come rappresentante di Thor su Nano. Le gambe nuove avevano contribuito.

Hillman faceva del suo meglio per essere pio e giudizioso, ma trascorrere ogni whiskazzutissimo minuto di ogni trifogliottutissimo giorno a sbrigare scartoffie lo stava facendo uscire di testa. E in più, la cicatrice che gli percorreva metà del corpo gli prudeva più del culo di un toro.

“Sono Hillman Hunter, Nano. Sono una figura alla Cristoforo Colombo, con tanto di fondazione di colonie e ammennicoli vari. Non posso starmene a bollare moduli e appianare scazzi familiari.”

L’interfono ronzò e un ologramma della sua segretaria si gonfiò sulla scrivania.

«Sì, Marilyn. Che c’è?»

«Il suo primo appuntamento, sono arrivati.»

Hillman ne fu quasi sollevato. Ragionare con gente vera era quasi meglio che almanaccare su fogli di carta.

“Tanto varrebbe spalare letame” pensò.

«Okay, Nano. Falli entrare.»

Marilyn aggrottò la fronte. «Scusi, Hillman. Come mi ha chiamata?»

“San Patrizio mi fulmini” pensò Hillman.

«Per Nano!» si affrettò a dire. «È il nuovo slogan ufficiale. Che ne dici?»

«Bene. Sì, ottimo» fece Marilyn, con un tono di così ottusa noia che Hillman si sorprese che fosse riuscita ad accorgersi dell’errore.

“L’ho già data a bere due volte in una settimana. Prima la storia di Thor, e adesso questo.”

Arthur Dent e la figlia, Random, entrarono nell’ufficio e ovviamente la ragazza si sedette senza essere invitata a farlo.

“Quella ragazza riesce a essere scorbutica persino nel modo di sedersi” pensò Hillman. “Ma è una tipa sveglia.”

«Sieda, Arthur, prego.»

«Grazie.»

«Per Nano!» sbottò Hillman, dicendosi che sarebbe stato meglio infilarne uno, di tanto in tanto, nelle conversazioni.

“È questo il problema con le cazzate” diceva sempre la sua Nano. “Che poi sei costretto ad affastellarle una sull’altra.”

«Prego?» disse Arthur, perplesso.

«È il nostro... eh, nuovo slogan. Per caricare la gente eccetera. Per Nano!»

«In che occasioni intende utilizzarlo?»

«Non so proprio» sbuffò Hillman. «Al momento del raccolto, prima di andare per mare, roba così. Roba eroica. Che ne dite?»

«Conciso» disse Arthur, schietto.

«Scattante è la parola giusta, no? Non avete idea di quante riunioni di sottocomitati ci siano volute per arrivare a questo slogan. Da qui all’anno prossimo sarà sul programma scolastico.»

Random appoggiò i gomiti sul tavolo. «Ho sentito dire che Nano era il nomignolo con cui chiamavi tua nonna.»

Hillman era turbato. «Davvero? Non ricordo. Ora che ci penso, credo che tu abbia ragione. Per tutte le stout, era da anni che non ci riflettevo, che mi prenda un’arpa.»

«Non sforzarti.»

«Come?»

«Ogni volta che sei in difficoltà, spunta fuori Paddy il leprechaun con il suo simpatico accento irlandish.»

«Questo è ridicolo» sputacchiò Hillman, spostandosi su un altro piano di scombussolamento. «Io sono irlandese.»

«Non così irlandese. La verità è che hai dato all’intero pianeta il nome di tua nonna.»

«La ragione primaria del nome era la dimensione del pianeta» disse Hillman, quindi decise che era ora di passare al contrattacco. «E poi, non avevo tutto il diritto di decidere io il nome del pianeta? L’ho pagato in gran parte io, e poi hai visto la lista dei suggerimenti?» Prese un foglio appeso alla lavagnetta di sughero. «La collina della quercia; Zietta Jojo, la più fantastica zia del mondo; Frank. Pianeta Frank! Andiamo, piccola. Nano non è brutto neppure la metà di questi.»

Random serrò la mascella. «Sarà, ma denominare pianeti e inventarsi slogan per aizzare la gente a me puzza di primi vagiti dittatoriali.»

«L’unico signore qui è Thor» disse Hillman solenne. «Non io.»

Arthur interloquì prima che Random potesse rispondergli. «Come va con le gambe nuove?»

Hillman fece clop clop con gli zoccoli sotto il tavolo. «Le giunture sono un po’ diverse, ma mi ci sto abituando. Dovreste vedermi salire le scale la sera. Come una saetta.»

Random ridacchiò. «A quanto pare, Thor ha sempre amato le capre, quindi la gente lo prende come un segno.»

Hillman spezzò una matita fra le dita paffute. «Un segno di che? Un segno di quanto è imbecille Zaphod?»

«Se non altro sei di nuovo vivo» precisò Arthur. «E di nuovo in pie... zoccoli. Zaphod ti ha promesso delle gambe da umanoide non appena ti sentirai pronto per l’operazione. Ne ha trovato un bel paio in fondo a una cella frigorifera.»

«Sei stato morto per soli venti minuti» disse Random affabile. «Avrai perso al massimo metà del tuo quoziente intellettivo. Non che qualcuno possa accorgersene.»

Arthur decise che sarebbe stato prudente cambiare ancora argomento.

«Come procede con le nostre richieste di cittadinanza?»

«Benino» disse Hillman, felice di essere distolto dalle sue gambe di capra. Il fatto era che non voleva sottoporsi a una seconda operazione. Essere per metà capra aveva i suoi vantaggi. Parte della comunità lo venerava, addirittura alcuni si prostravano al suo passaggio. E alcune fra le più giovani donne, le più impertinenti, gli avevano posto delle domande personali sulle nuove membra. Molto personali.

«Solo un paio di domande» disse, nascondendo un rossore improvviso dietro il monitor sulla sua scrivania. «Arthur Philip Dent. Bla bla bla. Bene bene bene. Ah, cosa dobbiamo indicare come occupazione?»

Arthur si strofinò il mento. «È passato un bel po’. Lavoravo in radio, una volta. E panini. So fare dei panini niente male.»

«Quindi, comunicazione e catering. Buone attitudini per un mondo in via di sviluppo. Non prevedo alcuna difficoltà per la tua richiesta.»

«E della mia che mi dici?» chiese Random, anche se parve più una minaccia che una domanda.

Hillman si lasciò ricadere sulla poltrona. «Questo dipende da te, Random. Sei qui con il solo scopo di sobillare i tiromanti?»

«I tiromanti si sono sciolti» disse Random, torva. «Le vacche hanno fatto irruzione nella colonia. E Aseed ha scoperto lo yogurt. Pare si stiano concentrando sulle torte, adesso, alfitomanzia.»

«E non intendi sposare questa nuova causa?»

«No. Ho obiettivi più alti.»

«Davvero? Trovare un bravo ragazzo, sposarti?»

«Voglio diventare presidentessa.»

Se Hillman avesse avuto un boccone fra i denti, ci si sarebbe strozzato. «Presidente? Di Nano?»

«Della galassia. L’ho già fatto in passato.»

«È una lunga storia» fece Arthur. «Deve ancora completare gli studi.»

«Ho otto master e un dottorato!» protestò la figlia.

«Titoli virtuali» disse Arthur pacato. «Non credo valgano.»

«Certo che valgono, Arthur. Non essere così Cro-Magnon.»

«Non sono io a fare le regole.»

«È un vecchio cliché. Sei una catasta di mattoni di cliché impilati l’uno sull’altro per fare una persona.»

«Bella figura retorica, piccola mia. Che ne diresti di intraprendere gli studi umanistici?»

Hillman aveva navigato sul sub-Età durante questo scambio di battute. «Credo di avere qualcosa qui che possa interessarti, Random.»

Random selezionò un “gli asini volino in cielo battendo le natiche prima che tu possa avere qualcosa che m’interessi” dal suo dizionario di sguardi e lo esplose a tutta forza contro Hillman.

«Ne dubito.»

Hillman le rispose con un’occhiata “ah, davvero?” e arricciò le labbra, giocando a rendersi più inafferrabile di un tizio con i capelli rossi a una festa in un pub irlandese.

Arthur fu il primo a cedere. «Cosa?»

«Niente. Random ha ragione. Non potrebbe interessarle.»

«Su, Hillman. Fa’ almeno tu la persona matura.»

Hillman girò lo schermo. «Guarda qui. L’Università di Cruxwan valuta i titoli virtuali dopo l’esame di ammissione. Sono in grado di estrarre i ricordi con quest’aggeggio simile a un polpo robot.»

«Moderatamente interessante» ammise Random, esaminando la videata. «E offrono un programma satellitare.»

«Potrei inoltrare io per te la domanda di ammissione» fece Hillman.

Random seppe riconoscere il tono di quell’affermazione grazie alla sua esperienza pluriennale di negoziati virtuali. «In cambio di cosa?»

«In cambio di un po’ di sostegno. Voglio essere franco con te, sono un uomo importante. Non posso stare a sprecare il mio tempo prezioso con i bruscolini. Lo stallatico non fa che ammonticchiarsi, ragazza. Violazioni sanitarie e di sicurezza, tutta questa gente di uBid che cerca alloggi, moduli fiscali da Megabrantis. Tuo padre mi ha parlato del tuo background in politica e...»

«E ti serve un’assistente?»

«Centrato. Chi mai potrebbe essere più qualificato di te?»

Random schioccò la lingua. «Certo non tu. Ma io cosa ci guadagno?»

«Esperienza nel mondo vero. Un bell’appartamento nel villaggio e inquadramento salariale di terzo livello.»

«Quinto» sbottò Random, per puro puntiglio.

«E quinto sia» si affrettò a dire Hillman, porgendole la mano.

«Risparmiati la mano» disse Random. «La stringeremo dopo, a contratto firmato.»

Hillman si lasciò ricadere sullo schienale. «Me lo vedo già, ci sarà da morire dal ridere, con te. Okay allora, ragazzina. Presentati qui alle otto in punto domattina, aspettami per le dieci e mezzo. Quando ti va puoi prepararti un tè.»

Arthur sentì lo spettro del sollievo aleggiargli sopra una spalla, e lo spettro di un cattivo presagio stravaccato a farsi una birra e rasparsi il sedere sull’altra.

“Pensa positivo” si disse. “Potrebbe funzionare.”

«Ti preparo io il pranzo» disse alla figlia. «Ti vanno bene dei sandwich?»

“Potrebbero non assassinarsi.”

Hillman abbassò la mano sotto la scrivania e si grattò la peluria ispida della coscia. «Oh, e mi serve uno shampoo speciale per i miei nuovi arti. Potresti anche aiutarmi a limarmi gli zoccoli.»

Arthur corresse l’ultimo pensiero trasformandolo in “Potrebbero non assassinarsi per un mesetto” poi colse le vampe infuocate nello sguardo truce di Random e comprese di essere stato ottimista di un paio di settimane.

 

 

Zaphod aveva trascorso qualche settimana di bagordi incontrollati rendendosi abbondantemente intollerabile, e poi aveva deciso di squagliarsela nell’improbabilità nel cuore della notte. Avrebbe preferito fare un’uscita fra i coriandoli nel corso di una parata organizzata in suo onore, ma c’era la faccenda dell’oro che aveva sgraffignato dalla cassaforte di Hillman a mo’ di rimborso per il sacrificio di Thor. E c’era poi una mezza dozzina di ragazze alle quali aveva promesso delle cosucce. Cosucce tipo amore imperituro, una gita fra le stelle, il suo codice pin.

“Non è passato neanche un mese da che sono arrivato” pensò mentre se la svignava per le scale della Cuore d’Oro. “Pensa quanti danni potrei fare in un anno.”

Zaphod Beeblebrox. La bottarella più potente dopo il Big Bang. Frugo.

Ford Prefect sapeva quanto Zaphod apprezzasse una bella parata, e quindi s’era portato un bel sacchetto di riso per salutare il cugino.

«Addio, signor presidente» gridò, gettando una manciata di riso sopra il capo di Zaphod. «Sono pronto a scommettere che un paio di signorine sentiranno la tua mancanza.»

I muscoli facciali di Zaphod eseguirono una complicatissima manovra che lasciò la sua espressione da qualche parte a metà strada fra il regale e l’afflitto.

«Grazie per i festeggiamenti, cugino. Ma sto cercando di scantonare.»

«Scantonare? Parola della settimana?»

«Esattamente. Sto già facendo abbastanza chiasso così, manipoleggiandomi questo sacco, senza te che ti metti a gridare.»

Ford si strinse nelle spalle. «Ehi, tu sei Zaphod Beeblebrox. Grande B. La gente grida per te. Se fossi in te eviterei di inserire una ritirata alla chetichella nel piano di fuga.»

Zaphod si accovacciò per tirare il fiato. «Zark. Hai ragione. Vorrei che qualcuno mi avesse detto questa cosa prima di Regituth, mi sarei risparmiato tutte quelle uova in faccia.»

 

nota della guida Nel corso di una precedente avventura non ancora accaduta, Zaphod aveva viaggiato nel tempo fino al pianeta Regituth, il cui popolo composto di uccelli s’era imposto (si sarà imposto; siete pregati di modificare ove occorra la consecutio temporum in maniera adeguata: coniugare, specialmente al futuro anteriore, tende a mandare in crash la Guida) come specie dominante. Dopo essere riuscito a rimpicciolirsi per rubare la loro statua sacra di Arthur Dent (storia lunga, lasciate perdere), Zaphod aveva tentato la fuga sgattaiolando alla chetichella per lo spazioporto, prendendo una scorciatoia attraverso l’incubatoio, il quale disgraziatamente era protetto da una serie di sensori di movimento, diverse uova non schiuse piuttosto scazzate e degli armamenti autotraccianti minimac. La zazzera di Zaphod ne era rimasta gravemente offesa, e nella caduta il Presidente Galattico aveva spiaccicato con il mento, sterminandola, una generazione intera di volatili. Durante il processo, uno Zaphod dalla criniera appena ripermanentata non solo aveva invocato l’immunità diplomatica, ma era riuscito a controquerelare il governo dei volatili per le misure di sicurezza ultrazelanti.

 

«Non mi ricordo nulla di Regituth» disse Ford. «Non dirmi che vivi delle avventure senza di me.»

«No. Non faccio nulla senza di te, Ford. Sei la sola persona di cui mi fidi. L’unica persona in cui io possa confidare.»

«Cos’hai nel sacco?»

«Souvenir. Miscele per torta che gli alfitomanti non volevano. Un piccolo forno a microonde.»

«Frugo. Potrai farti qualche bel bocconcino.»

«Il piano è quello.»

Zaphod spinse il sacco sferragliante dentro il portellone.

«Sei certo di non volere un passaggio?» chiese al cugino.

«No, grazie, Zaph. Ho del lavoro da sbrigare. Questo pianeta non ha neppure un articoletto nella Guida. Mi trattengo un paio di settimane per redigerlo. Faccio un po’ di ricerche, prendo un po’ di sole.»

«Sembra divertente» disse Zaphod malinconico.

«E allora perché non resti?»

Zaphod si mise in posa sull’incastellatura di lancio, una gamba piegata, l’avambraccio sul ginocchio. Da qualche parte un faretto organico si accese, tratteggiando la sua mascella con luce cremisi.

«Non è scritto nel mio destino, Ford» disse, mentre una brezza improvvisa gli sventolava i capelli da dietro. «L’universo ha altri piani per Zaphod Beeblebrox. Ovunque ci siano donne sole, io sarò lì. Ovunque i cocktail siano offerti alle celebrità, lì potrai trovarmi. Ogniqualvolta vedrai accadere cose terribili a questi tizi con, tipo qualche affare deprimente nel posto dove stanno, Zaphod Quantus Beeblebrox si sforzerà di trovare il tempo per occuparsene.»

«Quantus?»

«Lo sto provando. Che te ne pare?»

«Bello. Molto eroico. Meglio di quello dell’altra volta.»

«Lo so» disse Zaphod afflitto. «Prugnipod. Qualcuno avrebbe dovuto dirmelo.»

Fecero la loro danza di saluto. Natica natica tacco gomito batticinque gomito.

«Ancora una cosa» disse Ford. «C’è Arthur su questo pianeta, quindi, sai com’è, presto o tardi...»

«Qualcuno cercherà di farlo saltare per aria. Non preoccuparti, tengo un occhio sul sub-Età. Al primo accenno di vogon mi fiondo qui.»

«Conto su di te.»

La Cuore d’Oro si sollevò silenziosa dal cemento dello spazioporto.

«Non è male avere un piano di riserva» disse Zaphod, e sparì.

 

 

Cervello Sinistro era stato troppo a lungo connesso al plasma e si sentiva un po’ sovreccitato.

«Guarda un po’ chi si rivede, il grande Presidente Galattico Zaphod Beeblebrox ci onora della sua presenza.»

Zaphod mollò il pesante sacco di ori e preziosi dentro un armadietto. «Ehi, CS. Bel lavoro con le luci e la macchina del vento.»

Cervello Sinistro andò a sbattere la sua sfera contro la testa di Zaphod. «Non mi piace che mi usi come tecnico degli effetti speciali. Sei un Presidente emerito della galassia, Zaphod. Non hai nessuna dignità?»

Zaphod si carezzò la testa. «Non ho capito la domanda.»

Camminò a larghi passi verso il ponte, attraversando diverse autoporte programmate per riconoscerlo e per offrirgli al passaggio commenti adeguatamente elogiativi.

«Oooh, com’è in forma» sbrodolò il corridoio di servizio uno.

«Bei capelli, Zaphy» gli sussurrò l’anta scorrevole dell’ascensore centrale, che era sempre stata un po’ sfacciatella.

«Mi fai sognare di poter essere organica» disse la porta del ponte di mezzanave.

Mentre gironzolava sul ponte, sentendosi una quindicina di stimometri di autostima in più, Zaphod notò sul visore principale un’iconetta rotante a forma di martello.

«Quando è arrivata?» chiese a Cervello Sinistro, che aleggiava accanto alla sua spalla, sospettosamente vicino al punto in cui era solito stare attaccato.

«Qualche ora fa. Credo di soffrire di ansia da separazione» disse Cervello Sinistro. «Sento la mancanza del mio collo.»

«No problem» disse Zaphod, sistemandosi nella poltrona del capitano. «Posso farti riattaccare qui quando vuoi.»

«No, grazie» fece Cervello Sinistro. «Posso prendere qualche ansiolitico, o magari comprarmi un Olo-Corpo. Qualsiasi cosa sarà meglio che svegliarmi la mattina accanto a uno squallido tanghero come te.»

Zaphod rifletté diverse volte sul significato della parola “tanghero” per poi dimenticarsene di colpo.

«Mostrami il messaggio.»

«Musica di sottofondo?»

«No. Solo quello che è arrivato, e fa’ che nessuno possa intercettarlo.»

«Molto bene. Scudi attivati.»

Sullo schermo l’icona piroettò aprendosi in una finestra video. Il volto irsuto di Thor riempì lo schermo.

«Ehi, Zaph. Prova, prova. È un... Credo che non siamo ancora... Okay, okay, adesso mi vedo. Eccoci.» Il dio si ricompose. «Ciao Zaphod, sono io, il tuo cliente, Thor il dio del Tuono. Non sono morto, come di certo avevi già immaginato.»

«Avevo immaginato.»

 

nota della guida Il concetto di martirio rendeva un gran bel servizio agli dèi sin dalla mattina inoltrata dei tempi, quando Pasqalmath, dio stanziale di Tarpon VII, si sottrasse all’incombenza di sentenziare quali fossero i genitori di ogni neonato simulando la propria morte per overdose orgasmica. Pasqalmath comprese di essere molto più apprezzato adesso che era morto: c’era infatti la tendenza diffusa ad affidare le proprie decisioni a dicerie di terza mano o roba che si diceva fosse stata sussurrata sottovoce in una caverna a un lebbroso sordo. Il salario continuava a essergli accreditato sul conto, e adesso la divinità non doveva far altro che apparire a una vergine sotto forma di sagoma caliginosa ogni tot migliaia di anni e pronunciare qualche frase sibillina come “Le piccole pietre ci salveranno tutti, accertati di concupire i sassolini”. Il metodo Pasqalmath diventò un modello di così ampio successo che ben presto gli dèi di tutta la galassia cominciarono a simulare la morte e a maledire Pasqalmath per aver imposto il copyright sulla morte per overdose orgasmica.

 

Thor si chinò sulla telecamera. «È stata quella frase sul martirio. Ho fatto come hai detto tu. Ero lì che camminavo su quella grossa bomba, e mi sono detto che se mi fossi lasciato ammazzare gli umani avrebbero pensato che ero morto per loro. Così, non appena ho sentito scoccare il detonatore mi sono fiondato a velocità cento per cento sulla nave vogon e mi sono nascosto per un minuto fra le loro condutture. Volevo dare qualche botta di Mjöllnir sullo scafo, magari facendoli sembrare danni da esplosione, ma sul più bello sono andati a ficcarsi nell’iperspazio. Non so perché. Non che me ne freghi più di tanto. Fatto sta, è andata così. Torno ad Asgard, adesso, pronto alla risurrezione nel caso ti serva una mano. Credo di essermi beccato uno strappo all’inguine, quindi lasciami un po’ di tempo per rimettermi in forma. Fatti sentire, e fammi sapere se il trucco del martirio ha funzionato. E mandami un po’ d’oro, sto un po’ a corto, è un po’ imbarazzante. Ancora una cosa, da’ un’occhiata in giro e vedi se mi trovi l’elmo. Devo averlo perso da qualche parte per l’esplosione, era il mio preferito. Devo staccare, adesso, ho una chiamata in arrivo.» Thor si batté il petto con un pugno, poi fece l’occhiolino alla telecamera. «Bel lavoro, manager.»

Zaphod chiuse la finestra video, sbalordito. «Wow» disse. «Non posso credere che l’idea del martirio abbia funzionato. E soprattutto sono sbalordito del fatto che Thor l’abbia saputa intuire, proprio sagace. I miei stratagemmi in genere sono così astuti che devo rispiegarli due volte.»

Cervello Sinistro ballonzolò davanti agli occhi di Zaphod. «Non ti ricordi di aver mai parlato di martiri, vero?»

«No» rispose Zaphod. «Ma questo non vuol dire che non l’abbia fatto.»

«Quindi credevi davvero che il tuo cliente fosse morto?»

«Certo che no. Non si può ammazzare un dio. Persino quel tizio che è andato a spatasciarsi in un buco bianco è ancora vivo, nonostante i pezzetti siano sparpagliati fra varie dimensioni.»

«E la bomba speciale?»

Zaphod sbuffò. «Lo SCASSO? E chi credi l’abbia venduto ai vogon? Mi sorprende che non sia andato a deragliare fuori dall’orbita. Ci ho montato il motore di un tosaerba, su quel coso.»

Cervello Sinistro rimase in silenzio per un istante, si udiva soltanto il ticchettio dei ragnobot che raccoglievano la condensa dall’interno della sua boccia.

«Siamo rimasti soltanto noi due. Che ti va di fare?»

Zaphod incrociò gli stivaloni sulla console. «Non saprei. Il video del martirio di Thor ci metterà un po’ a diffondersi, abbiamo del tempo da perdere. Che stavamo facendo, prima di tutto questo?»

«Raccoglievamo fondi per la tua campagna di rielezione.»

Zaphod rimase di sasso. «Davvero? Ma sono già presidente.»

«Eri presidente» lo corresse Cervello Sinistro, con il tono paziente di un insegnante della scuola materna che spiega per l’ennesima volta perché non è una bella cosa bere l’acqua di risciacquo dei pennelli «fino a che non sei stato condannato per delitto di primo grado.»

«Ma continuano tutti a chiamarmi “Signor Presidente”.»

«Tutti gli ex presidenti vengono chiamati “Signor Presidente”.»

«Non crea confusione?»

«Non per più di mezzo secondo, se hai mezzo cervello.»

Zaphod corrugò la fronte. «Bisogna moltiplicare le metà?»

Cervello Sinistro sbuffò appannando la sfera. «Lascia perdere le metà. Eri presidente, adesso non lo sei più. È abbastanza elementare per te?»

«E allora chi è il presidente, adesso?»

«Ora?»

«Sì. In questo preciso istante.»

Cervello Sinistro non ebbe bisogno di andare a consultare alcunché, perché tutti sapevano chi fosse il Presidente Galattico, tutti con la sola eccezione dei passeggeri abituali di quella nave, con la possibile, ma non certamente certa, eccezione all’eccezione di Ford Prefect.

«Spinale Trunco della tribù dei Cavalieri Senza Testa di Jaglan Beta.»

Zaphod saettò in piedi, cosa non facile, se ce li hai appoggiati sulla console. I tacchi mozzi scoppiettarono scintille mentre li batteva irritato.

«Come!? Trunco? Ma non ha neanche una testa. Non una sola testa, ha. Zero sulle spalle.»

«Ne abbiamo già parlato, Zaphod.»

«Be’, non negli ultimi venti minuti. E lo sai che ho difficoltà mnemoniche.»

«Sono sorpreso che la tua memoria abbia memorizzato l’aggettivo “mnemonico”.»

«Esatto. D’accordo, CS, inserisci le coordinate del mio collegio elettorale.»

«Non ce l’hai, un collegio elettorale, e se ce l’avessi sarebbe l’intera galassia.»

«Be’, allora portami al centro della galassia. Se Zaphod Beeble-brox ritorna, la gente deve saperlo. Ho bisogno di vomitare in un pub, farmi qualche sveltina nelle latrine. Magari partecipare a un surreality show.»

«Credo che la prima faccenda da sbrigare sia quella di far ridurre la condanna da primo a secondo grado. Solo così potrai presentarti alle elezioni.»

«Bella pensata, CS. A chi bisogna mandare la bustarella?»

Stavolta Cervello Sinistro dovette consultare le sue banche dati. «Incredibile a dirsi, a Spinale Trunco.»

«Il vecchio Trunco. Uhm, c’era qualcosa in lui che...»

«Niente teste.»

«Ah. Neanche una. Bastardo.»

Cervello Sinistro ci mise qualche istante a penetrare gli schermi delle contorsioni mentali del presidente.

«Trunco è attualmente in vacanza presso il suo recinto-stalla su Jaglan Beta.»

«Allora andiamo a Jaglan Beta.»

Cervello Sinistro strinse gli occhi e trasmise le coordinate al propulsore a improbabilità. «Lo sai che Trunco ti odia, vero, Zaphod? Potresti aver bisogno di qualcosa di un po’ più allettante di quel sacco d’oro che ti ho scansionato quando sei entrato.»

Zaphod alzò il pollice verso Cervello Sinistro, e la testa senza corpo impiegò qualche istante a capire che c’era una cosa sul dito. Un minuscolo elmo con le corna.

«Potrei avere qualcosa da offrirgli» disse Zaphod.

 

 

Spazio

 

Thor aveva fatto una sosta su un asteroide cercando di mettersi in comunicazione con Zaphod. Stava seduto in una piccola sacca di ossigeno, quando rispose alla chiamata. Non che avesse davvero bisogno di aria respirabile, ma lo aiutava a tenere a bada l’emicrania, e poi gli era molto più facile parlare al telefono senza doversi scavare un pozzo magico per far sentire le onde sonore della sua voce nello spazio.

«Pronto, qui dio del Tuono» disse nel manico di Mjöllnir. «Parlate pure.»

Una piccola testolina dorata apparve sulla testa del maglio. «Ehi, signorina tumituòni, che mi racconti?»

«Alfiere. Che piacere sentirti. Ne ho di cose da raccontare, in effetti. Ho un gregge adesso. Discepoli veri. C’è un solo guerriero nel mucchio, ma è comunque un inizio.»

Il pezzo fece un tiro dalla sigaretta. «È fantastico, Thor, e io ti chiamo per darti altre buone notizie.»

«Davvero? Cosa?»

«Il tuo video» disse l’alfiere. «È al numero uno, con un paio di miliardi di visualizzazioni. Il successo sub-Età del momento.»

Thor si sentì sprofondare. «Quando finirà mai? Mi metto un bustier un giorno e l’universo non se lo scorda per l’eternità.»

«No. Non quello. Quello nuovo, in cui corchi di mazzate il tizio verde che insultava tutti. A quanto pare c’era un bel po’ di gente che non aspettava altro che di vederlo castigato.»

«Numero uno? Davvero? È fantastico.»

«Già. Tra l’altro, belle le mosse con il martello, postura impeccabile, come ti avevo consigliato io. Sei tornato in vetta, amico mio.»

Thor fece un sorriso smisurato. «Meraviglioso. Telefona a papà e mamma. Dillo a tutti. Tutti riuniti nel mio salone stanotte. Voglio idromele, maiali, vitelli e vergini.»

«Qualche calamaro?»

«No. Niente calamari. Ma qualsiasi altra cosa ti venga in mente di portare, portala, e assicurati che le valchirie ricevano un invito.»

L’alfiere alzò un pugno in aria. «Il Tuono è ritornato» disse.

«Proprio così» fece Thor. «Il Tuono è ritornato.»

Riagganciò, decollò, poi si voltò indietro e maciullò l’asteroide per puro sfizio.

“Ehi” disse lo spirito di Fenrir. “Era il mio dente quello.”

 

 

La Protok-Ol

 

Il costante Mown era disteso nella sua cuccetta, e guardava il suo viso riflesso nello specchietto di Barbie.

«Hai fatto la cosa giusta» non faceva che ripetersi, modificando di volta in volta piccoli dettagli nella struttura sintattica della frase, così da ingannare il suo subconscio facendogli credere di star sentendo qualcosa di nuovo.

«È una bella cosa quella che hai fatto. La cosa giusta.»

E ancora: «Quella cosa che hai fatto per quel pianeta. È stata assolutamente giusta. Una bella cosa».

Il viso nello specchietto, dentro la cornicetta rosa, era gioviale ma inquieto. Aveva salvato i terrestri, era vero, ma la lista delle specie “in via di estinzione programmata” era lunghissima, e quel trucchetto dei cittadini contribuenti avrebbe funzionato soltanto nei casi dettati dalla legge: casi rarissimi, dunque, tanto più adesso che il prostetnico Jeltz lo conosceva.

“Sarà la prima cosa che verificherà, d’ora in poi. Chi sono questi tizi che stiamo per disintegrare?”

«Troverai un modo» disse il viso nello specchietto, un viso che pareva quasi grazioso, senza la coppetta raccoglibava.

Mown non usciva più dalla cabina senza la coppetta raccoglibava. L’ultima cosa che desiderava era un aspetto grazioso, che si potesse interpretare come un sintomo di evoluzione. Anzi, dopo che il padre gli aveva affibbiato il nomignolo Piedi-lesti sul ponte, aveva pure aggiunto al guardaroba un’inciampastoia da piede. Non era opportuno essere agili e scattanti in un ponte vogon.

«Un giorno danzeremo» disse al suo riflesso.

«Un giorno canteremo» disse il volto nello specchio, e poi: «Era la cosa giusta da fare, quella che hai fatto per quella gente. Buona e giusta».

La voce di suo padre eruppe dall’altoparlante sopra la cuccetta.

«Costante! Ho in linea un qualche consiglio planetario, dicono che per via del loro calendario bisestile non abbiamo rispettato i tempi di preavviso per la devastazione coatta del loro pianeta. Vorrei che tu ci dessi un’occhiata.»

«Subito, papà» disse Mown, mettendo via lo specchietto e attaccandosi l’inciampastoia al piede. «Arrivo.»

«Così mi piaci, sei il mio piccolo Maledetto Bastardo» disse Jeltz, e chiuse il collegamento.

“No, non lo sono ancora” pensò Mown, incespicando verso la porta. “Proprio no.”

 

 

Nano

 

Arthur Dent cominciava a comprendere il senso di isolamento della figlia.

«Adesso capisco di cosa parlavi» le disse un mattino prima del lavoro. «Non abbiamo alcun posto che ci appartenga davvero. La Terra era il nostro pianeta, ma non c’è più. E anche se la consideravamo la nostra patria, per decenni non lo è stata. Abbiamo condotto delle intere esistenze lontani dalla sua superficie. Io nella mia isola, tu su Megabrantis. Siamo nomadi cosmici, il che sarebbe un nome fantastico per una band, tra parentesi, sbandati interstellari che non hanno nulla, se non l’uno per l’altra, cui afferrarsi in quest’eternità priva di coordinate.»

E Random disse: «Cosa mi metti nei sandwich oggi, papà? Ricordandoti che sto provando a essere vegetariana, e che il manzo non è un alimento vegetale».

«Quel manzo mi si è intrufolato nel sandwich» disse Arthur fievole, e si rese conto che Random non era ostinatamente infelice quanto una volta. Forse l’attrito quotidiano all’ufficio con Hillman Hunter stava dando un nuovo obiettivo alle ire di sua figlia, e forse Arthur avrebbe dovuto essere grato per l’adolescente relativamente piacevole che si presentava quasi ogni mattina al tavolo per fare colazione, anziché provare a trascinarla giù nell’icore della sua psiche ferita.

«Insalata mista con maionese?»

Random lo baciò sulla guancia. «Ottimo. Niente crosta.»

«Crosta? Certo che no. Cosa siamo, barbari? Come farei a definirmi “il re dei panini” se non sapessi fare un sandwich?»

E così via. Mentre Arthur, finite le affermazioni solenni, passava a elencare le sue credenziali da maestro dei panini, Random metteva il pranzo nella borsa prestatale da Ford e andava al lavoro.

Arthur s’era attenuto al ruolo di bravo papà casalingo per un paio di settimane, e poi aveva cominciato a cercare scuse per partire in viaggio.

«Solo io e te» disse a Ford. «Sarà come ai vecchi tempi ma senza pianeti che esplodono e l’altra gente che era con noi ai vecchi tempi.»

«Niente da fare, amico» aveva risposto Ford, sforzandosi meglio che poteva di mostrarsi affranto, cosa difficile con una maschera di fango vulcanico che gli copriva il viso e due deliziose massaggiatrici che gli pizzicavano i tendini dei polpacci. «C’è una quantità smisurata di stabilimenti termali su questo piccolo pianeta e devo provarli tutti. Lo devo a tutti gli autostoppisti là fuori.»

Arthur aveva osservato il tariffario. «Non dovevi farti bastare trenta dollari altairiani al giorno?»

«La borsa altairiana fluttua parecchio» aveva detto Ford, forse arrossendo un po’ sotto il fango. «Un giorno con trenta dollari ti compri una casa nei quartieri residenziali con un garage doppio e tre virgola quattro mogli. Il giorno dopo sei fortunato ad averne abbastanza per un vasetto di sanguisughe doposbronza. Sto occupandomi tanto del turismo di lusso quanto di quello economico, giusto per non sbagliare.»

E così Arthur era stato costretto a partire in esplorazione da solo.

“Solo.” Era quella la parola più temuta. Lui, Arthur Dent, era un uomo solo, reietto, ramingo. In prestito da un’altra dimensione. Uno sfiduciato signor nessuno con nessun signore a cui affidarsi.

Tutto ciò sarebbe suonato un po’ pessimistico ed egocentrico, persino per un individuo che avesse da poco ricevuto un pacco indirizzato: “Pessimista egocentrico, Nano”. Arthur aveva dunque deciso di dare al suo viaggio la parvenza di una missione paterna.

«Vado a Cruxwan per vedere con i miei occhi quest’università» aveva detto a Random. Lei avrebbe di certo ribattuto, ma s’era preparato per demolire preventivamente le sue ragioni. «Adesso so cosa stai per dire, ma che razza di padre sarei se lasciassi mia figlia abbandonata nell’universo senza controllare di persona? Tua madre e Wowbagger torneranno dalla crociera fra qualche giorno.

E Ford starà con te fino al mio ritorno. Sono soltanto una dozzina di salti iperspaziali, non dovrebbe volerci più di una settimana. Due al massimo. E comunque, in termini virtuali, hai un centinaio d’anni, quindi un paio di settimane senza di me non dovrebbero essere un problema. Ti lascio tutti i miei numeri per contattarmi e una scorta di sandwich congelati, quindi tutto dovrebbe andare bene. Domande?»

Random ci aveva riflettuto per un momento e poi aveva chiesto: «Che tipo di sandwich?».

Così adesso Arthur era seduto in una deliziosa poltrona avvolgente in gel su un’astronave iperspaziale di linea, in business class, che dall’esterno aveva l’allarmante aspetto di una bella ceppa di genitali maschili, ma all’interno era estremamente gradevole non appena si riusciva a rimuovere dalla mente l’immagine dei due reattori iperspaziali e della lunga fusoliera per i passeggeri. Aveva acquistato il posto con dei punti spaziali di un conto aperto prima del suo periodo lamuelliano.

“Ai tempi di Fenchurch.”

“È una cosa bella” si disse. “Sto facendo qualcosa di utile anziché starmene per casa giù di corda e interferire con la carriera di Random. Così almeno potrò interferire con i suoi studi.”

Arthur si concesse il lusso di spogliarsi fino ai volotandòni e di inzuccarsi, quindi scivolò nella poltrona. La poltrona di gel lo avvolse e selezionò “Guida galattica per gli autostoppisti” dal menu a sfioramento. Arthur grattò con l’iconetta su un link che riguardava Cruxwan. C’erano tremila articoli.

“Abbastanza da tenermi impegnato per tutto il viaggio” pensò.

Quando i passeggeri furono a bordo, i portelli pneumatici si richiusero con un sibilo e Arthur scoprì non senza sollievo di essere l’unico nella sua fila. Non voleva considerarsi un astroviaggiatore snob, ma anche a un inzuccato in volotandòni può capitare di aver voglia di sgusciar via dalla sua poltrona senza sentirsi puntati addosso occhi indiscreti.

Decollarono, e Arthur vide Nano arretrare nello spazio attraverso l’astr-o-camera del suo sedile. Ben presto l’intera nebulosa non fu altro che uno scialle di mussolina cosmica gettato su una rete di stelle.

“Scialle di mussolina cosmica” pensò Arthur. “Se Ford sapesse scrivere cose così, potrebbe davvero guadagnare bei soldoni.”

Una piccola iconetta azzurra del propulsore apparve sull’angolo del cuscino e Arthur succhiò profondamente dalla sedocannuccia.

“Iperspazio. Mi sei mancato.”

Il salto fu più morbido di quanto non ricordasse.

“Saranno questi nuovi sedili.”

La sensazione gli ricordò un po’ la delicatezza di quando da bambino viaggiava sulla slitta e andava a sbattere contro un cumulo di neve, ma senza l’impatto improvviso del freddo. Era una sensazione calda e accogliente. Arthur avvertì una punta di smarrimento nell’angolino del suo buonumore. L’iperspazio era capace anche di togliere qualcosa, specialmente a chi veniva da una Zona Plurale.

Arthur Dent si rilassò e osservò l’universo avvolgerglisi intorno. Al di fuori del bozzolo della sua poltrona nuotavano asteroidi, creature spaziali e i volti di un milione di altri viaggiatori. La Guida galattica li identificava tutti con piccole videoetichette codificate cromaticamente, ma prima ancora che Arthur riuscisse a leggere anche una sola parola i visi erano già spariti, sostituiti da altri.

Dopo un primo salto dal sapore onirico, la nave si lanciò fuori dall’iperspazio, scivolando tremula come un sasso fatto balzellare sulla superficie di un lago. Le lucine delle cinture di sicurezza lampeggiarono per qualche istante, poi si spensero.

“Credo che andrò al gabinetto” pensò Arthur. “Prima del prossimo salto.”

Ovviamente la poltrona avrebbe potuto riciclare i suoi fluidi, ma Arthur sentiva che c’erano cose che non andavano fatte in pubblico, standosene sprofondati in un grosso e pretenzioso sacco di plastica.

Sgonfiò la poltrona e si tirò su a sedere, intontito, e fu vagamente sorpreso di scoprire che il posto accanto a lui era occupato. La nuova arrivata gli parlava con tono familiare, come se si fossero già conosciuti. Gli occhi di Arthur non si erano ancora rimessi a fuoco, ma la voce la conosceva, e così il capo chino e la ciocca di capelli tirati dietro un orecchio.

“Fenchurch?”

Arthur si strofinò gli occhi per scacciare l’ipertorpore e guardò di nuovo. Era Fenchurch, che chiacchierava animatamente come se non si fossero mai separati.

“Non può essere vero. Sto sognando.”

Ma non era così. Era proprio Fenchurch, ritornata a lui. Era identica, a parte la screziatura azzurra sull’attaccatura dei capelli e la cresta di osso al centro della fronte.

“Quasi uguale. Magari due dimensioni più in là. Il suo Arthur è sparito proprio come la mia Fenchurch.”

Fenchurch finì il suo racconto e rise la sua risata tintinnante, con quel tipico risucchio alla fine che puntualmente gli ricordava l’aspirapolvere di sua madre.

“Se conosco Fenchurch, non ha ancora finito di parlare” pensò Arthur, trattenendosi di nuovo dalla tentazione di fuggire sconcertato. “Ci sono altri aneddoti in arrivo.”

Aveva ragione. Fenchurch gli batté sull’avambraccio, si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e aprì la bocca.

«Ah, ancora un’altra cosa...» disse.

“Quale altra cosa?” avrebbe voluto chiedere Arthur. E qual era la cosa che veniva prima dell’altra cosa? “Dimmi ogni cosa nell’ordine giusto.”

Avrebbe desiderato dire queste parole a quell’esotica eppure familiare Fenchurch ma, quando alzò le mani per portarle sul viso della ragazza, vide che le proprie dita erano trasparenti.

“Come? Oh, no. No.”

La nausea gli salì in corpo, un ribollire pungente di interferenze che gli fluivano dagli arti e gli avvolgevano la mente nella nebbia.

“La Zona Plurale” comprese. “Chi appartiene a una Zona Plurale non dovrebbe mai viaggiare nell’iperspazio. Potrebbe andare a finire ovunque.”

Arthur vide che Fenchurch protendeva la mano verso di lui. La sua splendida bocca abbozzava il suo nome e già veniva proiettata lontano da lui in un tunnel elastico multicolore.

“Non è lei a venir proiettata lontano” si disse Arthur “ma io. Sono io quello che schizza via.”

 

La galassia gli turbinò tutt’intorno ed era lì nudo nel suo centro, senza alcuna protezione dal freddo e dalle radiazioni, eppure non moriva né soffriva, era solo incollerito perché l’anomalia iperspaziale lo trascinava ancora più lontano dalla sua vita. Alla fine il mero volume delle cose e delle prospettive si fece troppo terrificante e Arthur dovette chiudere le palpebre, cosa che non cambiò nulla, perché erano trasparenti, e cercò allora di mettere a fuoco l’unico luogo dove avrebbe mai potuto conoscere la vera pace. Spinse, mentalmente, con forza, evocando ogni singolo stelo di bambù della sua capanna e ogni singola roccia bianca che sbucava tra le acque nel suo letto di sabbia. Non pensò alla nebulosa che vortica-va alle sue spalle né alle stelle rosse che eruttavano vampate nello spazio. Non pensò a queste cose, fino a che, ben presto, esse non furono la sola cosa alla quale egli non era più in grado di pensare.

Dopo un po’ di tempo, che non si sarebbe potuto misurare neppure con un orologio digitale di fascia medio-alta, Arthur decise che si sentiva nuovamente solido. Si sforzò di tendere le orecchie e udì il frangersi delle onde, tirò fuori la lingua e sentì un sapore salato.

 

“Era mai possibile?” si domandò.

Arthur Dent aprì gli occhi e si ritrovò seduto su una spiaggia somigliante in tutto e per tutto a quella della sua vita virtuale. C’era no delle differenze nella conformazione della costa, ma le variazioni erano così minuscole da non notarsi quasi; c’era persino una pie cola capanna, oltre il confine del palmeto.

“È possibile?” si domandò. “O quantomeno probabile, qualunque cosa significhi, sempre ammesso che questa parola significhi qualcosa?”

Strinse gli occhi al bagliore dei raggi del tardo pomeriggio e non poté fare a meno di notare una tozza sagoma giallognola lontana all’orizzonte.

“Che...? No, certo che no.”

Arthur avrebbe aggiunto: “Non può essere!” ma quella specifica frase aveva perduto ogni diritto a essere accompagnata di un punto esclamativo, a partire dalla prima volta che aveva incontra to Zaphod Beeblebrox. Non c’era nulla che non potesse essere, e se c’era qualcosa che non doveva essere, in genere sarebbe stato.

Un passero putipù-trintrin svolazzava circospetto accanto a lui.

«Maledetti vogon» disse storcendo il becco. «Sono qui in giro da qualche giorno. Pare che qualcuno si sia dimenticato di depositare una richiesta edilizia per quella capanna.»

«Tipico» disse Arthur, e chiuse gli occhi desiderando ardentemente di trovarsi in qualsiasi altro posto in compagnia di chiunque altro.

 

nota della guida La quasi incredibile sfiga di Arthur Dent creò un vuoto di provvidenza che produsse un’incredibile fortuna per un essere collocato all’altro capo dell’universo. Un certo Signor A. Grajag, semisconosciuto cronista sportivo di Nonigien, si risvegliò improvvisamente nel letto dell’ospedale dopo sei mesi filati di elettroencefalogramma piatto, in seguito a una collisione con un cargo uBid. Si svegliò proprio nel bel mezzo di un cocktail organizzato nella sua camera di degenza per festeggiare l’uscita dei suoi numeri al lotto e il bacio della dea bendata, durante una seduta di carezze della signora con la falce. Proprio in quella, il suo amore giovanile, che l’aveva riconosciuto durante un’apparizione nel programma Il Coma dei Famosi stava fiondandosi in ospedale per dichiarargli il suo amore sincero covato per lunghi anni. La coppia si sposò ed ebbe due figli giudiziosi e assennati che non avevano alcuna intenzione di seguire le orme del padre nel mondo dello spettacolo, preferendo studiare giurisprudenza e medicina.

 

Se Arthur avesse saputo della famiglia Grajag il suo umore sarebbe forse un po’ migliorato. Ma non di molto.

 

Fine.

Di uno dei centri.